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Davide Caputa

Non so perché

Io non so perché il sogno

Questa notte mi fugga

Quella sola che agogno

Moribonda lusinga

 

Io non so perché la tristezza

Del suo vano dolore

Tremi come il rimpianto

Nel profondo del cuore

 

Io non so perché il vano

Desiderio d’oblio

Venga a me da lontano

Da quell’ultimo addio

 

Chiudo gli occhi. Ho bisogno

Di notte, di una lusinga;

e non so perché il sogno

questa notte mi fugga!

Critica in semiotica estetica della Poesia “Non so perché” di Davide Caputa

 

Languido e dondolante il verso del Caputa incanta l’istante fra l’inconscio e la coscienza, cui l’uomo è costretto, esiliato da se stesso e ignaro nella domanda del desiderio. L’umano è imputato alla vacuità ineludibile della mancanza, alla bugia seduttrice della rappresentazione, che lo confina nel limbo di sofferenza della passione: fra memoria e oblio e nella cruda negazione di entrambi.

Aquila

Un nido solitario

In fratture inaccessibili

Sul margine dei precipizi

A grandi altezze

Un grande spirito

Vola libero, elegante, solenne

Quando infuria la tempesta

Spiega le ali al vento

Un’aquila si alza in volo

Plana in solitudine

Forte, terribile e maestosa

La grandezza è solitaria

Critica in semiotica estetica della Poesia “Aquila” di Davide Caputa

 

Lo sguardo del Caputa segue il movimento ascensionale del filosofo nella figura simbolica dell’animale più orgoglioso, l’aquila nietzscheana della luce e delle altezze, archetipo dell’aria, dello spirito: è la scelta dell’epoché della coscienza, della solitudine del distacco, della hybris della visione che scotomizza l’inconscio per il desiderio d’identificazione alla deità. Eppure, questa vittoria non è che un momento dialettico, poiché l’orgoglio dell’aquila necessita dell’intelligenza del serpente: la conoscenza è all’integrazione dell’inconscio alla coscienza.

Sul tetto del mondo

Sulla vetta più alta

Oppure sull’orlo del precipizio

Alla ricerca degli spiriti celesti

Oppure in fuga dai demoni

 

Le grandi cattedrali della Terra

Sono maestri muti

Che preparano discepoli silenziosi

Ad intraprendere un cammino solitario

 

Verso se stessi, e lasciano

Impronte che il vento dissolve

Non tutti ci provano

In pochi ci riescono

 

Infiniti spazi e sconfinati silenzi

Una scuola aspra ma sincera

Dove l’anima si fonde con l’eterno

Scoprendo la propria essenza

 

L’uomo di fronte a se stesso

Nel bene e nel male

Nella libertà vibrante

Ritrova la serenità

 

E nell’ebrezza dei momenti

Vissuti isolati dal mondo

La gloria dell’altezza

Ammette qualunque follia

Critica in semiotica estetica della Poesia “Sul tetto del mondo” di Davide Caputa

 

La parola nietzscheana del Caputa sospinge alla condizione essenziale della rivelazione, al meriggio del sole della coscienza che abbandona la tensione, al di là del bene e del male, oltre la valutazione etica. Il punto d’intersezione fra essere e divenire è l’attimo di metanoia, l’Augenblick di pienezza estatica sussume l’istante nell’eternità, nel tempo aionico: è l’irruzione di verticalità di un trasformato, di un circonfuso di luce. È lo über estemporaneo la cifra della differenza ontologica, la follia fiera che identifica alla deità.

Nell’Abisso

Un uomo sull’orlo dell’abisso
Mistico, visionario o pazzo
Oscillando su una corda tesa
Il Poeta: un abisso che vede
In tutte le direzioni
In cima ad ogni vetta
Si è sull’orlo di un precipizio
Inferno o cielo, nell’ignoto
Per scoprire il vero
Bisognerebbe avere ali
Quando si ama l’abisso

Critica in semiotica estetica della Poesia “Nell'Abisso” di Davide Caputa

 

Completamente omaggiante, la parola del Caputa, fra la poesia del Bosquet e la filosofia nietzscheana, sfida l’abisso dell’inconscio nel rituale apotropaico che reintegra la morte nella vita. Il poeta invita all’abbandono delle certezze prospettiche della coscienza e si fa passaggio dell’oltre di sé. Il sapere sposa l’oblio, per rinascere ad una personale verità individuata fra coscienza ed inconscio, all’archetipo del Sé che unisce il luogo alato dell’aquila a quello ctonio del serpente.

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