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Giovanni Leone

Obliqua avvenenza

Se fossi stato groviglio d’ossimori,
quel tanto che sfama il sogno tenace,
che ossequia il diario con io ho vissuto,
una svirgola, insomma, nel cielo stellato,
avrei gioito di una somma paffuta,
meno in ghingheri, più appetitosa.
Ingrato (mai) delle metafore ardite,
dei frettolosi giorni d’allegoriche uscite,
di parole malconce, sentenze inventate.
È rammarico solo d’orgoglio inesperto,
una fitta nel fianco, un opaco pensiero. 
Se fossi stato (non so) silenzio eloquente,
il dialogo muto tra complici puri,
l’arsura gelata nel nostro sì, lo voglio,
una follia volontaria nel dire ci sono.
Se fossi stato (che dire) un’amara dolcezza,
contrappeso convinto tra forse e mai più,
mescolio immobile di sana accoglienza,
la magra opulenza dei giorni frizzanti,
una nota, in breve, tenuta nascosta,
avrei gustato il vento, l’obliqua avvenenza,
meno ingegnosa, più girandola in festa.
Avrei indossato una scintilla orgogliosa,
il divino mantello dell’umano sentire.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Obliqua avvenenza” di Giovanni Leone

 

La parola celebrante del Leone magnifica la dimensione ipotetica, l’obliquo vettore di bellezza della sintesi fra finitudine e infinito. Sui piani metafisici del pensiero, la poesia apre lo spazio transizionale e inesauribile dell’immaginazione, che esonda possibilità di pienezza, oltre la dimensione oppositiva cosciente, oltre il rimando. È il respiro obliquo di rappresentazione e di volontà, dell’esserci fra inconscio e coscienza del lancio d’amore, della finzione creatrice dell’arte.

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