top of page

Giuseppe Bianco

Se t'incontrerò...

Se t’incontrerò non chiedermi

chi sono, potrò solo dirti

che rifiutai la forma dell’acqua

versata nella terracotta.

Sono il mio vissuto algebrico,

nuvola che esiste finché

si possa scorgere nel cielo.

Non ha rivelazioni il piccolo,

vano universo destinato

a collassare nel nulla,

mi porto dietro il sacro piombo

del dubbio mai fuso,

ho dovuto con intemerato

spirito discernere tra

gli insolubili grani del crogiolo.

Mi è rimasto il cammino angusto,

senza i rassicuranti ponti

che immettono oltre la sponda

dei fiumi rapinosi di questo

fondo valle da guadare scalzo,

trattenendo il respiro.

Mi è mancato l'amico

a cui sommessamente parlare,

insieme seguitando il viaggio.

Non saprei chi dei due

abbia lasciato indietro l'altro,

per me sarebbe stato un dono

averlo accanto.

L’ho cercato a capo chino

tra mille orme sulla via maestra

che dal riverbero di luce

pur doveva essere la sua.

 

Se t’incontrerò non ti domanderò chi sei,

basterà un grido d’abbraccio  

per capire che nessuno dei due

ha mai dimenticato l’altro.

Critica in semiotica estetica della Poesia “Se t'incontrerò...” di Giuseppe Bianco

 

Scivola rapida la parola del Bianco, a figurare la condizione temporale, come fiume rapinoso, dell’umana finitudine, che tuttavia accetta la propria costitutiva mancanza ad essere, cui la verità si nega. Ogni uomo è eco che riecheggia il suono originario e coessenziale di un abbraccio perduto, che fonda un universo di senso. Il valore della vita è nel riconoscimento mutuale, nel dono reciproco, alla dimensione qualitativa inesauribile del racconto, unica identità non oggettuale dell’umano e segnico viandare, nell’attesa che all’abbraccio rifonde.

Milano, Binario 21

Molte patrie ed una Promessa Terra
sulla rotta profetica d’un mare in secca
che aprì il varco al condiviso anelito
d’esiliata genìa in schiavitù.
Poi nell’indifferenza
tornò la notte del deflagrante magma,
d’esasperata follia fattasi legge.
Smembrate le costellazioni ignare
per infinite gelide rotaie oltre
i confini di indurite lande.
Dilatata angoscia nel silenzio greve
scandìto da sobbalzi e prolungato
stridere d’acciai, in laidi convogli
di stelle gialle stivate per l’ignoto.
Incessante furor d’aspri latrati,
rabbia d’invasate maschere in orbace
assimilate ad aliene fiere nell’arena.

​

Sfinita nudità di tremebonde foglie
prossime a cadere nel tempo teso
tra preghiera e morte,
tra fronti d’onde di un antico male.
Fantasmi resi alle cineree nuvole
da sinistro camino erto nel campo
come chiodo nel confisso cielo.
Nembi di dissacrata libertà,
quante deposte lacrime di piombo
ci vollero prima di affidare
le reliquie al vento, finché durò
il crepuscolo degli uncinati demoni,
lenta si levò l’esule malinconia
ininterrotto incedere di provato coro,
adagio di sommesse voci erranti
alle pie volte delle falbe stelle.

​

Oltre le porte dell’antico sogno,
il buio del firmamento non ha spazi
per le promesse zolle custodi dei sepolcri.
Sale al cristallino empireo il dolore dei giusti,
consacrata luce, eterna verità della memoria.

 

Critica in semiotica estetica della Poesia “Milano, Binario 21” di Giuseppe Bianco

 

Cordogliosa in sinestesia di presenza diretta, la parola del Bianco inscena forme simboliche, nell’incommensurabile sforzo di contenere sensorialmente e ineffabilmente un dolore reiterato dalla storia, che non trova la catarsi di un senso, poiché l’identità che estroietta la differenza a conferma della medesimezza è identità suicida. Così l’uomo reitera un sacrificio insepolto, a immediata redenzione, da plumbea sofferenza alla citrinitas di stelle fra le stelle, di morte arsa e distillata all’armonia del cielo, per l’eternità di vita della memoria trasmutata in essenza divina.

bottom of page